Copertina C'era un italiano in Argentina

Copertina C’era un italiano in Argentina

Ci siamo imbattuti in Vittorio Meano durante una visita al Museo dell’emigrazione di Frossasco (Torino). Nella sala destinata a rievocare le figure di spicco tra i milioni di connazionali costretti a cercar fortuna all’estero, fummo colpiti da uno dei pannelli esposti: era dedicato a un piemontese del XIX secolo vissuto a Susa, Pinerolo e Torino, partito giovane per il Sudamerica, autore – prima di essere ucciso a soli 44 anni – del teatro Colón e del Palazzo del Congresso a Buenos Aires nonché, a Montevideo, del Palazzo legislativo.  Dell’architetto niente sapevamo, ma ben conoscevamo i tre monumenti: il Colón, tempio assoluto della musica lirica e concertistica, è una struttura bellissima che vanta la migliore acustica del pianeta; il Congresso, grandioso edificio che accoglie il Parlamento, incarna l’identità collettiva del Paese e rappresenta il maestoso simbolo della capitale; il Palazzo legislativo, magnifica sede di camera e senato dell’Uruguay, è l’emblema supremo del piccolo Stato affacciato sul Río de la Plata.

Palazzo Legislativo di Montevideo disegno di Meano

Palazzo Legislativo di Montevideo disegno di Meano

Folgorati dalla scoperta, abbiamo pensato di scriverne la biografia.

Vittorio Meano

Vittorio Meano

All’inizio credevamo di trovare caterve di informazioni su di lui. E invece, con enorme sorpresa e a onta della celebrità delle sue opere, ci siamo subito resi conto di essere alle prese con un Don Nadie cualquiera, un Signor Nessuno qualunque. Strano che in Italia risultasse un perfetto ignoto; ma anche in Argentina, cosa ancor più strana, pochissimi sapevano chi fosse nonostante sia stato l’artefice di un pezzetto dell’anima di quella terra. Ciò ha fatto impennare la nostra curiosità.

In una situazione del genere è stato difficilissimo trovare documenti utili: le ricerche ci hanno impegnato per quasi un biennio, però alla fine, con fatica e pazienza, siamo riusciti a combinare i tasselli rintracciati e a ricomporre nel libro “C’era un italiano in Argentina…” (Hever Edizioni) l’intricato puzzle delle vicende umane e professionali di Meano, facendo emergere un quadro davvero stuzzicante.

È una storia di immigrazione, lavoro e talento; di amore, tradimento e gelosia; di intrighi, corruzione e tangenti.

Una storia che comincia con la nascita di Vittorio il 2 aprile 1860 a Gravere, borgo montano alle porte di Susa e a una sessantina di chilometri da Torino. Il padre, notaio nella vicina Venaus, è un notabile di elevato rango della comunità valsusina. La mamma, ricca possidente terriera, muore dandolo alla luce.

Il vedovo si sposta con la famiglia nell’abitazione segusina. Qui si risposa e appena un lustro dopo viene stroncato da un’epidemia di tifo. Il piccolo resta a Susa con la matrigna qualche anno, poi si trasferisce con lei a Torino dal fratello maggiore Cesare, affermato ingegnere.

Frequenta le scuole con esiti insoddisfacenti e allora viene mandato in collegio a Pinerolo a studiare. Tornato alla base, inizia a farsi le ossa nell’ufficio di Cesare. Si applica con profitto ma è pur sempre un ragazzo che non può pensare solamente alla carriera. Ha altri interessi, infatti: è fra i fondatori del primo giornale socialista italiano, il “Proximus Tuus”; e si diverte, frequentando i mille locali della Torino dell’epoca. In uno di questi incappa nella femme fatale, Luigia Fraschini: madre di un bimbo in tenera età, si esibisce con una combriccola di guitti di cui fa parte anche il marito, uomo che s’arrangia vivendo di espedienti.

Pazza idea essere l’amante stabile della moglie di un balordo, certamente pronto a rendersi pericoloso non appena annusi nell’aria puzza d’infedeltà. La situazione si fa spinosa. È seriamente preoccupato. Urge una drastica soluzione.

Francesco Tamburini

Francesco Tamburini

L’opportunità arriva da Francesco Tamburini, famoso architetto marchigiano ingaggiato dal governo argentino: prima di salpare da Genova per il Nuovo Mondo fa sosta in città per visionare la Mole, l’ardito edificio che Antonelli sta costruendo; Vittorio trova la maniera di incontrarlo e mostrargli i disegni che ha fatto. Tamburini capisce al volo di aver di fronte un giovanotto dalle straordinarie capacità e lo esorta ad andare con lui. L’invito è l’occasione propizia per togliersi dagli impacci sentimentali e, nel contempo, per avere prospettive professionali stimolanti: percepisce che l’algida Torino tarpa le ali ai neolaureati ambiziosi.

Così, nel dicembre 1884, in compagnia della bella Luigia, che abbandona consorte e figlio, s’imbarca per l’Argentina e all’inizio della calda estate australe approda a Buenos Aires, affollato e spoglio agglomerato urbano all’apice del processo di rinnovamento ed estensione che lo porterà a trasformarsi da Gran Aldea (Grande Villagio, soprannome usato dagli stessi abitanti) in una metropoli con i fiocchi.

Vittorio si butta a corpo morto nella sua missione, presto virata in ossessione. Brucia le tappe: debutta in uno dei cantieri aperti da Tamburini, entra in pianta stabile nella “bottega” del pigmalione – dapprincipio impiegato, poi assistente e quindi preminente collaboratore del principale – e diventa reggente degli uffici; ancora un triennio ed eccolo socio del maestro; infine, quando questi prematuramente spira (1890), eredita in toto l’attività, comprese le ampie e robuste entrature politiche che il capo si era metodicamente creato.

Da plenipotenziario dello studio esordisce con il progetto per la realizzazione del teatro Colón.

Teatro Colon disegno di Meano

Teatro Colon disegno di Meano

 

Siamo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento in una nazione in crescita sfrenata nella quale la classe dirigente è strettamente legata all’alta borghesia, ai grandi latifondisti, al cuore della ricchezza. Spesso sono proprio gli stessi soggetti a ricoprire importanti cariche pubbliche e posizioni di punta nell’oligarchia economica. Sovente, molto sovente, vengono privilegiati gli interessi particolari e privati rispetto a quelli generali della popolazione. Meano è completamente inserito nel meccanismo: conoscenze altolocate e solidi agganci negli ambienti che contano – unitamente a innegabile talento, indubbia preparazione tecnica e fortissima abnegazione nel perseguire gli obiettivi – ne fanno un personaggio di rilievo all’interno della società bonaerense, assai apprezzato ma anche oltremodo invidiato.

Mentre si sta occupando del Colón, partecipa al concorso indetto per l’esecuzione del Palazzo del Congresso con 28 architetti e ingegneri fra i più famosi del panorama internazionale. Li batte tutti.

Vittorio Meano e i colleghi dello studio

Vittorio Meano e i colleghi dello studio

Sebbene gli venga accreditata l’indiscussa validità della proposta, immediatamente prende corpo il sospetto che il successo sia stato favorito da un potente comitato d’affari capitanato da un influente senatore, ex presidente della Repubblica e suo amico: Carlos Pellegrini.

Aggiudicarsi la gara non è solo curriculum e prestigio, vuol dire pure incassare un premio di 25mila pesos (circa 800mila euro oggi), avere fama, notorietà e potere. E per uno di trent’anni, da meno di dieci in Argentina, significa imboccare decisamente la via della gloria. Facendo denaro a palate.

Le spese per la fabbricazione del Congresso da 6 milioni di pesos di stanziamento iniziale (circa 200 milioni di euro attuali) lievitano a velocità supersonica: alla fine, nel 1946, sarà costato 40 milioni di pesos (un miliardo e trecentomila euro odierni). Volendo circoscrivere il computo al periodo meaniano, dallo start up del 1897 al decesso del valsusino nel 1904 il budget originario si dilata fino a 25 milioni di pesos.

Palazzo del Congresso disegno di Meano

Palazzo del Congresso disegno di Meano

Una torta gigantesca che fa gola a corrotti e corruttori, concussi e concussori, a qualsiasi livello. E Meano, nella veste di direttore dei lavori, sovrintende alle operazioni, maneggia i soldi e distribuisce le prebende.

L’opinione pubblica porteña è indignata, i media si buttano a pesce sulla vicenda, monta la protesta. Per la stampa che scopre gli altarini e per la gente che legge e commenta, tra prurigine e sdegno, i torrenziali articoli di fuoco è il Palacio de oro. Invece per l’ampia platea di manutengoli è la gallina dalle uova d’oro.

I beneficiari di cotanto bendidio devono escogitare qualcosa per placare l’ira crescente: pronti via, mettono insieme un’inchiesta per verificare la regolarità dei conti. In men che non si dica il verdetto è sfornato: il continuo aumento dei costi è pienamente giustificato, Meano però è dichiarato colpevole di leggerezza nell’uso dei fondi e punito con il taglio del 25% dell’onorario.

Carlo Passera

Carlo Passera

Non accetta di essere l’unico capro espiatorio, è furibondo. In una lettera inviata ai parenti in Italia dice di essere stanco e di temere di perdere la calma e la prudenza. Timore infondato, perché muore prima, ammazzato da Carlo Passera, ex domestico amante di Luigia.

La notizia dell’omicidio desta epocale scalpore: i giornali ne parlano per settimane sino al momento del processo, poi più nulla. Non c’è una riga neppure sulla sentenza. Tutto messo talmente a tacere da far svanire Meano dalla memoria di un intero Paese.

Per questo ci siamo chiesti: fu assassinato veramente per questioni passionali? Gli indizi che abbiamo raccolto sono sufficienti per farci affermare che fu vittima di un complotto ordito nelle alte sfere per eliminare un uomo che troppo sapeva e troppo avrebbe potuto rivelare. Macchinazione così ben riuscita da far calare, per oltre un secolo, una pesante pietra tombale sul formidabile artista.

Claudio Martino & Paolo Pedrini

 

Nota della redazione:
Se volete saperne di più su questo nostro connazionale potete visitare il sito dei nostri ospiti http://www.vittoriomeanobook.altervista.org
Il loro libro, C’era un italiano in Argentina… è in vendita su Amazon.it