Il fumetto in Argentina ha una lunga e solida tradizione, tra le più importanti mondialmente e sicuramente la più importante in America Latina.
Il periodo d’oro fu tra gli anni 40 e 60, anni che videro nascere e pubblicare disegnatori del calibro di Oesterheld, Pratt (nato a Rimini, ma nato professionalmente in Argentina, dove era emigrato in cerca di fortuna) per i fumetti di azione, o Divito, Quino e Mordillo per quelli comici.
In Argentina il fumetto non è solo un passatempo o un genere minore: assume anche una valenza educativa e di critica sociale.
Hector G. Oesterheld, creatore della magnifica metafora della lotta (illustrata ne L’eternauta) contro la dittatura militare degli anni 70 fu rapito e desaparecido dai militari.
Altri nomi di illustri sono Horacio Altuna e Carlos Trillo, creatori del Loco Chavez, oppure Robin Wood (nato in Paraguay, ma come Pratt, emigrato in Argentina), creatore di Nippur di Lagash, Dago e Gilgamesh.
Negli anni 70 nasce anche il personaggio di Alack Sinner, un ex-poliziotto divenuto detective privato e cui creatori dovettero emigrare in Italia per non subire le sorti di Oesterheld. I testi erano di Carlos Sampayo e i disegni di José Muñoz, che ha scritto la prefazione del libro “el cacique Blanco” che da ieri Rizzoli ha messo in distribuzione.
Un libro importante e lussuoso, con la storia, creata da Ongaro e disegnata da Hugo Pratt, che racconta di Bob Farlene, arrivato a Durban per cercare l’amico Ted Olsen. Ted si era recato una missione nei territori Zulu ed era scomparso senza lasciare tracce. Il coraggio, l’astuzia e la lealtà faranno diventare Farlene il capo villaggio della tribù degli, Usutu, cioè il Cacique blanco.
Il libro lo trovate anche su amazon, sia in formato ebook che in formato cartaceo, potete scaricare una anteprima digitale qui: Cacique Blanco (El)
Ecco invece il testo della prefazione scritta da José Muñoz:
“Nel 1951 avevo nove anni, ancora non conoscevo la rivista Misterix, e il Cacique principale dell’Argentina – bianco, ma senza esagerare – era Juan Domingo Perón. Era stato eletto dalla maggioranza dei cittadini come difensore del popolo, nella speranza che con lui il Paese avrebbe prosperato. E così fu, per un bel po’. Gli argentini ebbero accesso a un salario decoroso, la nazione si industrializzò, i sindacati, benché diretti dal partito peronista, concentrarono la forza collettiva: lavorare era qualcosa di dignitoso e lavorare bene, al meglio possibile, andò di moda per un certo tempo.
Il mio Paese era cullato da ingenui fervori, dall’entusiasmo della collettività in cui gli uni erano strettamente connessi agli altri. In tanti mi hanno detto che per mia fortuna all’epoca ero solo un bambino. Forse hanno ragione. Penso a Julio Cortázar, feroce oppositore del peronismo, che in quegli anni si allontanava dall’Argentina spaventato dal dirigismo “caudillesco”, dal malcellato disprezzo e dal timore, nutrito da molti esponenti del governo, verso la cosiddetta cultura, fortemente accusata di affondare le proprie radici in una matrice omosessuale cosmopolita. Non so in che termini Cortázar abbia poi mitigato il proprio rifiuto, so che in seguito lo fece, vedendo ciò che accadde dopo la caduta del Generale. Nessuno è perfetto, persino chi crede di esserlo. Bene, in quell’Argentina rigogliosa e tutto sommato tranquilla, popolare e populista, arrivarono, all’inizio degli anni Cinquanta, confusi nell’ultima, massiccia onda-tranquilla, popolare e populista, arrivarono, all’inizio degli anni Cinquanta, confusi nell’ultima ondata migratoria massiccia dall’Italia, Hugo Pratt, Alberto Ongaro, Ivo Pavone e Mario Faustinelli, ragazzi entusiasti, pieni di talento e molto fotogenici. Li aveva importati un altro italiano, Cesare Civita della Editorial Abril, un impresario colto che, in sei-sette anni, costruì una florida casa editrice. I fumetti, il tango, il cinema, la radio, il patio, il pergolato, il mate, i quartieri che sconfinavano nella pampa erano lo scenario felice della nostra infanzia. A quell’epoca stavo emigrando dalla rivista Pato Donald a Misterix, proprio all’inizio della pubblicazione del Sergente Kirk, di Héctor Oesterheld e Hugo Pratt.
Nel Cacique Blanco, che scorre sotto i miei occhi e che credo di intravedere tra i miei ricordi più remoti, si erge davanti a me la figura di Hugo Pratt, il maestro, il disegnatore che sarebbe presto arrivato all’apice con il Sergente Kirk, Ernie Pike, Ticonderoga e, al suo ritorno in Europa, con Corto Maltese: un talento accecante, commovente. Alberto Ongaro ricorda, con una certa serena e cordiale rassegnazione, la sua sceneggiatura di questa storia: avventurieri bianchi anglosassoni che in un qualche luogo dell’Africa combattono per la giustizia aiutando una tribù del luogo a difendere la propria libertà e i propri beni dagli attacchi di un’altra tribù capeggiata da cattivi, anch’essi anglosassoni. C’è amore, traffico di pietre preziose, lieto fine, ecc.
La trama è basilare, sono historietas a lieto fine che la realtà della Storia, con i suoi esibizionismi di malvagità trionfante ripetuti fino alla stanchezza morale, smentisce troppo spesso. Ma il merito di queste narrazioni sta nel proporci degli argomenti che, se pur trattati in fretta, come nel caso del Cacique Blanco, sublimano il male che è in noi, lo lavorano e riescono a consolarci per un po’. Si tratta di storie, soggetti, punti di vista che contribuirono a formare in noi i primi barlumi di coscienza etica, divulgando l’archetipo dell’eroe umanista. Ongaro e Héctor Oesterheld, attraverso Junglemen e il Sergente Kirk, ci portarono per mano verso l’eterno sogno di dignità e giustizia della specie, ci fecero pensare al bene, ce lo presentarono come divertente e attraente. Raymond Chandler definiva il suo Philip Marlowe “un’invenzione letteraria”: io spero ancora che non sia soltanto così, perché sono proprio questi gli eroi che ci accompagnano, ci insegnano e ci proteggono dalla consueta, feroce stupidità del reale. Ongaro osserva che molto dipende dalla profondità della caratterizzazione psicologica dei personaggi e ritiene che Junglemen sia il suo miglior lavoro con Pratt.
Ricorda anche, con molto affetto, Mark Cabot, la sua solida serie poliziesca che Carlos Vogt disegnò egregiamente. Questo fumetto, che veniva pubblicato su Rayo Rojo, si svolgeva a New York, ed è dai suoi dialoghi ironici e scintillanti e dal cinema noir di quegli anni che è inizia- to il mio interesse per gli ambienti urbani nordamericani che successivamente mi avrebbero condotto ad Alack Sinner.
Tornando a Pratt e alle sue magie, già in quelle vignette si palesava il mistero del suo talento, la sua vigorosa interpretazione dello stile caniffiano, la prepotenza della sua abilità capace di animare – sì, animare – tutti gli spazi dell’immagine, fuori e dentro le linee e le macchie, la gioia costruttiva delle sue pennellate, specie nelle pieghe dei vestiti. Le stesse, impressionanti pennellate che in Milton Caniff – o ancor più in Frank Robbins, sembravano ragionate, meccaniche, a volte quasi fredde, in Pratt si scatenavano in un festival di ritmi e incroci gestuali, come un Emilio Vedova o un appassionato anonimo animista della grotta di Chauvet imprigionati in pochi centimetri quadrati. Un risultato straordinario: figurativismo astratto.
La stessa folgorazione la ebbi più tardi con Gas e Mort Cinder di Alberto Breccia e Oesterheld: nervi, agitazione vitale, energie manuali, turbinii di inchiostro di china su un supporto di amabilissimi pretesti figurativi, sfilavano davanti ai nostri occhi a passo di danza, celebrando le forme, innalzando, sublimando il perenne miracolo della bellezza…
In queste pagine del Cacique Blanco mi sembra di scorgere le prime luci, l’inizio di una preghiera di ringraziamento disegnata. Grazie, ragazzi, per quest’alba sulla pampa, foriera di promesse che si concretizzarono nel vostro cammino di operatori dell’ingegno umano, di addetti all’intrattenimento alto, anzi altissimo – e qui possiamo ridere un po’ di noi: non ci si sbaglia mai e fa sempre il suo effetto.
José Muñoz
Spoltore 2014”